Buddy Holly

Il giorno in cui la musica morì

Il giorno in cui la musica morì, tre giovani uomini salirono su un piccolo aereo da turismo insieme ad un pilota appena ventunenne.

A pochi minuti dal decollo, mi voglio immaginare, uno di loro prese in mano una rivoltella e la puntò un po’ per scherzo e un po’ per fastidio, nella direzione di uno dei suoi due compagni di viaggio.

Quest’ultimo, sorpreso, si alzò in piedi di botto e reso spavaldo dal suo ghigno beffardo, gli corse incontro a voler bloccare quella mano che, a sorpresa invece, premette il grilletto.

Due mani nate per suonare, partorirono la tragedia, in un momento fatale.

Nel boato del colpo, il pilota si spaventò, il terzo passeggero si spaventò, tutti si spaventarono.

Il velivolo perse immediatamente quota e quelle voci normalmente consacrate alla musica, urlarono un terrore sgraziato che solo la consapevolezza di essere ad un passo dalla fine, rende così gracidante.

Potrebbe esser stata una scaramuccia per una donna?

Io vorrei immaginare sia stato così.

Siamo in quell’epoca beata in cui erano gli uomini a farsi avanti mentre le donne aspettavano educate ai margini della sala, che qualcuno le facesse ballare l’ultimo successo in vinile.

Era l’epoca del saper attendere, dei bigodini arrotolati la sera prima della festa, degli sguardi sognanti, dei vestiti a pois, dei corpetti stretti e della gonna larga, fino alle ginocchia.

I ragazzi indossavano completi giacca e, a vent’anni, sembravano già grandi.

Forse erano davvero più grandi, forse erano stati costretti ad essere uomini presto e non si potevano permettere di rimanere “sospesi” a lungo in un’epoca adolescenziale.

La musica allora era spettacolare.

I tre protagonisti di questa storia si chiamavano Buddy Holly, Ritchie Valens e J.P.Richardson.

Era il 3 Febbraio 1959, tra tutti e tre non arrivavano a 70 anni ma avevano già consegnato alla storia pezzi come “Everyday”, “La bamba” e “Chantilly Lace”.

Sulla neve candida di un rigido inverno, l’aereo precipitato, esplose in un ferroso boato.

Il fumo uscì lento dai pezzi slabbrati della carena mentre chiazze di sangue tagliarono il pavimento bianco di un anonimo campo di grano dello Iowa.

Qualche metro più in là giaceva, semisepolta nella neve, una rivoltella orfana di un proiettile.

Sui rottami dell’aereo, stavano riversi i corpi sbrindellati e silenziosi di chi un’ora prima canticchiava padrone, le canzoni che, immortali, riempiono ora i miei auricolari.

Il giorno in cui la musica morì la musica rinacque.

Perché la musica è potente e quando uccidi quella sbagliata, essa aspetta solo il momento per ergersi con  forza e valicare i confini del tempo.

Ogni anno l’industria musicale butta fuori migliaia di pezzi e molti di essi risultano meteore destinate al misero cinguettio di una stagione. Poi arriva “Il Pezzo”, quello che ha la forza dell’amore vero, quello che  travalica il tempo e passa dal vinile dell’epoca al mio Smartphone oggi.

I tre artisti, grazie al loro indiscusso talento e al furbo operare post mortem delle case discografiche, diventarono miti indiscussi del Rock e, su questo giorno nefasto, venne partorita una delle più belle canzoni della storia.

Nel 1971, Don Mc Lean incise un singolo di otto minuti e mezzo dal nome “American Pie”.

Attorno al significato del testo di questa canzone nacquero così tante interpretazioni di ordine sociale, politico, religioso, da rendere il tutto ancor più intrigante.

La musica esiste da sempre ma la differenza tra qualcosa che resista e qualcosa che si perda sotto centimetri di oblio, la fa la qualità degli uomini che la interpreta.

Un po’ come in amore; se chi ha cantato ti ha trasmesso la melodia giusta, essa ti torturerà le orecchie a lungo perché, signori miei, il Rock, quello vero, non muore mai.

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